" Sono tempi duri. Tempi in cui le auto, con l’arroganza di
cilindrate sempre più grosse, si muovono, spruzzando e rombando a vanvera in
ogni strada, dai centri storici alle forestali più alte. Sono tempi in cui le
motoslitte tritano neve gareggiando sulle mulattiere delle Alpi, surrogando la
macchina che almeno lì non può arrivare.
Sono tempi in cui chi cammina
a piedi è visto strano, con sospetto. Perché chi va a piedi lungo le strade
d’Italia, d’Europa, sono i migranti, i poveri, i diseredati. Mala
tempora currunt, dicevano i latini in questi
casi. Ma il cammino rimane l’attività più antica e naturale dell’uomo, anche
se i più l’hanno scordato. Il cammino è fisico e spirituale, porta da qualche
parte o da nessuna, è fine a se stesso, ma non perde nobiltà.
Il mio ricordo più forte
di cammino è già vecchio di vent’anni, ma non ha perso la forza che ha avuto
allora. Un cammino lontano, che cercava avventura o forse
solo rarefazione: di case, di strade, di gente. Eravamo stanchi di densità. E il cammino scioglie
la densità, allunga le ore, stira i pensieri.
Eravamo in quattro, di breve conoscenza ma con idee chiare in testa. Avevamo
deciso di investire tutta la nostra passione e incoscienza – in egual misura –
in quel viaggio. Il primo ricordo che mi viene è la stanchezza. Una stanchezza
fisica assoluta, bella, pura. Una stanchezza che faceva prurito al cuore. La
stanchezza che viene dopo un esodo, un pellegrinaggio. E quello, pure se fatto
con gli sci ai piedi, era stato un pellegrinaggio: centotrenta chilometri sul
ghiacciaio più grande d’Europa. C’era molto di spirituale. Intendiamoci,
nessuna folgorazione sulla via di Damasco. Epperò…
Quel cammino ci ha cambiato la vita, portando ognuno di noi a scegliere il
vivere libero del viaggio, della natura, della rarefazione.
Perché questa è la
virtù del camminare: sciogliere la densità dei pensieri. Mentre si cammina, con
o senza zaino, con o senza sci, con o senza slitta attaccata ai fianchi, i
pensieri si allineano e si chiariscono. Non c’è l’affastellamento in bilico
delle giornate di lavoro. L’incrostazione dei dubbi, delle rabbie, delle
angosce si scioglie come calcare in aceto, mentre col sudore si espellono il
rancore e la fretta. Si scambiano gli umori del corpo con la tranquillità
dell’anima: un bilancio sempre in attivo.
In quel
viaggio islandese abbiamo vissuto anche momenti tesi, duri. Ma
è stato quando il cammino si è interrotto, compresso dalla bufera per tre
giorni tra i teli delle tende ghiacciate o tra le lamiere di una piccola
vettura, goffa su piste di roccia nera.
Cammino spesso lungo i
sentieri himalayani e lì, passo dopo passo, trovo
sempre casa. È una sensazione meravigliosa quella di
sentirsi a casa in luoghi lontani. Dà sicurezza e tranquillità, dà pace. E solo camminando si può provarlo. Perché il
cammino è lento, e facilita gli incontri, dà il tempo di parlare, di esercitare
la curiosità. È bello in un viaggio himalayano osservare la progressiva
riduzione dei mezzi di trasporto; parti in aereo e alla fine rimani con la
dotazione di serie: i tuoi piedi. Quale altro mezzo potrebbe mai dare le stesse
sensazioni, consentire le stesse felicità oltre ai nostri piedi? Nessuno. Solo
i piedi che consentono il cammino. Leggete l’elogio dei piedi di Erri de Luca e
capirete molte cose.
Il cammino in Himalaya ti affianca all’alpinista estremo,
teso alla conclusione del suo proprio cammino, la
vetta. Ti affianca al trekker duro e puro, con zaino
da venticinque chili e fiato a debito. Ma ti affianca anche al portatore, secco
di muscoli e sole, coi suoi ottanta chili di legno
sulle spalle. Ti affianca allo sherpa d’alta quota, sei volte in cima
all’Everest, niente gloria, solo un mestiere. E ti fa capire l’altro mondo,
quello delle vite in cammino per necessità, dove il solo piacere è la
cessazione della fatica. Dove non tutti i passi sono felicità e quiete. Come
accade alle donne Himba o San dell’Africa australe,
cariche di otri e chilometri sulla testa, per trovare l’acqua.
Perché il cammino da sempre è anche sofferenza,
basta una foto di Salgado per capire: gli eserciti in
marcia, gli esodi biblici, i viaggi dei profughi, rimbalzati da un paese
all’altro, le ritirate di Russia, i ritorni degli internati all’apertura dei
campi di sterminio. Perché il cammino ha
questo che lo rende unico: è parte ancestrale
dell’uomo, come la fame, l’istinto di sopravvivenza, la vita stessa.
Per questo i giorni
dell’uomo sono diventati un inferno di frenesia, violenza, accumulo. Si è
lasciata la naturale rarefazione orizzontale del cammino, i suoi incontri lenti
e curiosi per scambiarli con l’addensamento verticale di oggetti inutili,
situazioni, persone.
Ed è sempre
per questo che un evento piccolo ma prezioso come Passoparola,
con i suoi cammini fisici e spirituali – nel senso più ampio del termine –
cerca di ridare fiato a una categoria sempre più ampia di persone. Persone che
rifiutano di scambiare la propria serenità con poche perline di apparenza. Che
cercano, anche in un gesto semplice come il camminare, di lasciare un piccola, naturale traccia del proprio passaggio
terreno."
Manuel Lugli |
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Messa nel cassetto una laurea in medicina,
dopo anni di attività personale sulle montagne del mondo, ma soprattutto in Himalaya,
Manuel Lugli trasforma la passione in un mestiere e da oltre 13 anni, con la
sua agenziaIl
Nodo Infinito